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Dipendenza da smartphone: quando il cellulare ci disconnette dalla vita

L’immagine di copertina di questo articolo è tratta da una delle campagne pubblicitarie create dal designer Shiyang He per il Shenyang Center For Psychological Research: le tre pubblicità ritraggono situazioni di vita quotidiana in cui in primo piano troneggia uno smartphone dalle dimensioni spropositate, frapponendosi come barriera impenetrabile nell’intimità delle relazioni familiari.

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L’impatto di queste immagini è notevole e sembra bussare alla coscienza dell’essere umano moderno, con la testa china sullo smartphone, il tempo scandito dal suono delle notifiche, e le orecchie sempre più sorde all’impercettibile presenza dell’altro nella medesima stanza.
Stiamo assistendo ad una sempre più massiccia, penetrante e pervasiva onnipresenza dei dispositivi digitali nelle nostre vite, quasi fossero un prolungamento esistenziale senza il quale ci si sente persi.
Essi esercitano il loro potere seduttivo in modi sempre più accattivanti, assolvendo moltissime funzioni, permettendoci di poter lavorare ovunque, di essere sempre “connessi” con il mondo, di poter disporre di qualunque informazione in ogni momento, di riempire nei più svariati modi il tempo, le pause, la noia, il vuoto.
La tecnologia, di per sé, non è da demonizzare, tutt’altro: essa ha facilitato enormemente la gestione di molti aspetti della nostra vita e il valore delle potenzialità che ci offre quotidianamente è prezioso.
E nemmeno il nostro comportamento è da demonizzare, ma da osservare e comprendere: l’era dei social, ad esempio, riflette l’evoluzione dell’ancestrale bisogno dell’essere umano di sentirsi appartenente al gruppo, di esprimere la sua essenza di “animale sociale”- secondo la definizione di Aristotele.
Ma ora più che mai è necessaria una presa di coscienza, un risveglio collettivo, che ci permetta di osservare l’impatto che un uso smodato e compulsivo della tecnologia ha sulle nostre esistenze, individuali e collettive.

Quando la tecnologia ci disconnette dalla vita

Siamo sempre più “connessi”: alla messaggistica istantanea, ai vari social network, alle email, ai giochi virtuali, alle infinite potenzialità di internet.
A volte ci immergiamo nel display per uccidere la noia, a volte per sentirci meno separati e soli in quest’era in cui il senso di frammentarietà delle nostre esistenze sprofonda nello spazio interpersonale, a volte per rispondere a un bisogno sempre più crescente di una sovrastimolazione sensoriale che possa silenziare per un po’ il malessere che fatichiamo ad affrontare, a volte per riempire quel tempo di cui non riusciamo più a godere, a volte per non “sentirci”, per non dover fare i conti con noi stessi, con i nostri stati d’animo negativi.
Studi recenti, ad esempio, dimostrano che la quantità di tempo spesa a usare il cellulare sembra correlata al bisogno di riparare stati d’animo spiacevoli, distrarre dalle preoccupazioni quotidiane, e fornire conforto.
Ma mentre il mondo virtuale sembra proporsi sempre più come il miglior antidoto a ogni disagio e frustrazione, e come un’appagante fonte di gratificazione, esso ci disconnette di pari passo alla vita che accade, al contatto umano con le persone intorno a noi, e soprattutto rischia di disconnetterci dalla consapevolezza profonda di noi stessi.
La tecnologia, inoltre, con la sua caratteristica di immediatezza ci rende istantaneamente accessibili, alterando la percezione soggettiva e collettiva del tempo e della distanza: come se ci fosse un bisogno diffuso di essere immediatamente reattivi, pronti, disponibili ad ogni notifica 24h su 24.
Così non sappiamo più aspettare, non riusciamo a posticipare la potenziale gratifica sociale che il cellulare può darci. E in questo modo non riusciamo mai a fermarci, a riposare davvero, a stare.

Quando diventa dipendenza

Secondo alcuni dati del Pew Research Center- scrive il Washington Post – il 67% delle persone che possiedono uno smartphone lo utilizzano anche quando non ne avrebbero bisogno; il 44% ammette di dormire con il cellulare accanto al letto per non perdere un’eventuale chiamata durante la notte e il 29% non riesce ad immaginare una vita senza”.

L’uso dei dispositivi digitali diventa dipendenza quando vi è una perdita del controllo sul proprio comportamento nonostante si riconosca che esso avrà determinate conseguenze negative.
Segnali di allarme sono l’utilizzo compulsivo, la sensazione di non poterne fare a meno, e quando tale comportamento interferisce significativamente con le proprie attività e con il funzionamento lavorativo o sociale.

Nomofobia – dalla parola aglosassone “no-mobile” e dal termine greco “phobia”- è il termine che descrive la paura della società digitale: quella di non avere il cellulare o il portatile a disposizione.
Due studiosi italiani, Nicola Luigi Bragazzi e Giovanni Del Puente, in una pubblicazione sulla rivista Psychology Research and Behavior , hanno proposto l’introduzione di questa fobia nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali (DSM-V).
I due studiosi hanno descritto questa condizione come caratterizzata da “ansia, disagio, nervosismo e angoscia causati dall’essere fuori dal contatto con un telefono cellulare o un computer”.

Ecco i segnali di nomofobia:

– Usare regolarmente il telefono cellulare e trascorrere molto tempo su di esso, avere uno o più dispositivi, portare sempre un caricabatterie con se stessi;

– Sentirsi ansioso e nervoso al pensiero di perdere il proprio portatile o quando il telefono cellulare non è utilizzabile;

– Guardare lo schermo del telefono per vedere se sono stati ricevuti messaggi o chiamate;

– Mantenere il telefono cellulare acceso sempre (24 ore al giorno); dormire con cellulare o tablet a letto.

Phubbing è invece il termine di nuova generazione per definire l’atteggiamento di trascurare una persona con cui si è impegnati in una qualsiasi situazione sociale, controllando compulsivamente lo smartphone.

Vogliamo essere vicini e connessi a chi è distante, e non ci accorgiamo dell’impatto negativo che questo comportamento ha sulle nostre relazioni quotidiane e di quante possibilità di incontri umani ci perdiamo mentre sediamo alla fermata dell’autobus o al bancone del bar.
Possiamo tornare a incrociare i nostri sguardi se li solleviamo per un attimo dallo schermo.

Cosa fare?

Cosa fare per non lasciarci inghiottire dal bisogno irrefrenabile di essere sempre online?
Nel prossimo articolo vedremo nel dettaglio alcuni modi concreti per ritrovare un rapporto più equilibrato con la tecnologia.
Ma prima di apportare qualche piccolo cambiamento nella routine quotidiana, il primo passo è quello di rendersi consapevoli del rapporto che si ha con il proprio smartphone e dei processi che lo caratterizzano.
Ecco cosa puoi osservare:

– In quali momenti della giornata e durante quali attività, senti maggiormente l’impulso di prendere in mano il cellulare?

– Puoi osservare che stato d’animo c’è in te nei vari momenti in cui scatta questo desiderio? E quali pensieri sono associati? Quali emozioni e sensazioni fisiche?

– Come ti senti mentre stai usando lo smartphone? E quando lo riponi?

– Quando per un attimo ti “risvegli” e ti accorgi di essere stato completamente assorbito dalle attività virtuali, prova a allargare il campo percettivo e osservare cosa ti stavi perdendo mentre eri (s)connesso.

– Di tanto in tanto, prova a quantificare il tempo che fino a quel momento della tua giornata hai passato attaccato al cellulare.

Limitati soltanto a osservare, non giudicarti. Tutti noi, esseri umani digitali, siamo stati contagiati, chi più chi meno, dallo stesso virus che ci rende, in varia misura, dipendenti dalla rete.
Ma possiamo anche risvegliarci, e riprenderci le nostre vite, il nostro tempo, il contatto profondo con chi siede accanto a noi.

Nashira Andreon

Psicologa Psicoterapeuta

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