Nell’ articolo precedente abbiamo individuato l’utilizzo di etichette e stereotipi come uno dei possibili ostacoli alla comprensione reciproca.
Riprendendo la metafora della comprensione come viaggio di esplorazione, le etichette e gli stereotipi possono essere paragonati a vicoli ciechi, poiché incanalano la nostra conoscenza degli altri all’interno di strade a senso unico e senza via d’uscita. Vediamo in che modo.
Un processo di semplificazione
Il processo di attribuzione di caratteristiche personali a noi stessi o agli altri e il raggruppamento delle persone entro categorie predefinite, fa parte del modo automatico in cui comunemente si cerca di conoscere e comprendere gli altri.
Questo processo viene automaticamente utilizzato perché esercita una funzione di semplificazione della realtà che ci permette di economizzare le nostre risorse e di fornirci in breve tempo informazioni che ci danno la sensazione di facilitare l’interazione con gli altri.
Tollerare un certo grado di indefinitezza nella conoscenza degli altri potrebbe infatti essere difficile e talvolta ansiogeno, e così le “etichette” e gli stereotipi ci vengono in aiuto fornendoci categorie di significato già consolidate che suppliscono alle informazioni di cui non disponiamo.
Supponiamo di conoscere da poco tempo una persona e di avere poche informazioni su di lei; inquadrarla come ironica, o saccente, o genuina, ci permette di farla rientrare in una categoria a noi già nota di persone simili per la stessa caratteristica, orientandoci nell’interazione.
In altre parole, questo offre il vantaggio momentaneo di darci la sensazione di avere una certa “presa” sulla realtà e un certo controllo delle situazioni sociali.
Ma qual è il prezzo da pagare?
Etichette come gabbie
Quando descriviamo una persona spesso utilizziamo etichette che ci ricordano altre persone che noi riconosciamo simili per qualche aspetto: socievole, furbo, egoista, creativo, loquace ecc, sono esempi di etichette che usiamo per definire gli altri e anche noi stessi.
In che modo tali etichette possono rivelarsi gabbie per noi stessi e gli altri?
In primo luogo, occorre considerare che sebbene queste etichette denotino un significato lessicale comune e condiviso all’interno della stessa lingua, tuttavia esse assumono di fatto un significato del tutto soggettivo a seconda dell’esperienza personale di chi le usa: tali categorie si sono infatti formate nella nostra mente in base alle esperienze che ciascuno di noi ha avuto con le persone che abbiamo riconosciuto all’interno della stessa etichetta.
Ad esempio, l’etichetta di “buono” può assumere molteplici significati diversi: per alcuni potrebbe indicare una persona amorevole, per altri una debole e sottomessa, per altri ancora una pressoché santa, per altri una ingenua forse anche un po’ stupida, per altri ancora una semplice, e così via.
Perciò quando una nuova persona ci viene presentata da un amico come una persona buona, dovremmo cercare prima di capire cosa intenda il nostro amico con “buona” prima di appiccicare questa etichetta alla persona in questione.
E soprattutto, non dovremmo mai dimenticare che qualsiasi etichetta usata non ci informa su chi è la persona a cui è attribuita l’etichetta, ma informa su chi la sta usando, perché denota il modo in cui quest’ultima si rappresenta quello che vede: se io descrivo Maria come accogliente, non significa che Maria “sia” effettivamente accogliente, o che lo sia in tutte le situazioni, e che tutti la vedano in questo modo; piuttosto indica che io attribuisco ad alcuni comportamenti di Maria l’etichetta di accogliente, in base ai miei significati personali.
In secondo luogo, potremmo considerare che la medesima etichetta non ci informa sui differenti modi in cui eventualmente quella caratteristica potrebbe esprimersi in persone diverse: Matteo “socievole”, è “socievole” nello stesso modo in cui lo è Paolo? In che modo Matteo esprime quella che io vedo come socievolezza? In che modo la socievolezza di Matteo e quella di Paolo sono simili ai miei occhi, e in che modo diverse?
Il rischio potrebbe essere quello di un’ipersemplificazione, appiattendo all’interno delle stesse etichette comuni persone che hanno visioni del mondo diverse.
Inoltre, le etichette si rivelano gabbie in cui rinchiudiamo noi stessi e gli altri nella misura in cui attribuiamo una caratteristica statica e predefinita a persone che sono continuamente attori in movimento della propria vita; attribuire a qualcuno la caratteristica statica di “forte” una volta per tutte, impedisce che noi possiamo cogliere le sfumature e le diverse occasioni in cui eventualmente manifesta o meno quella che vediamo come forza: Andrea è necessariamente “forte” in tutte le situazioni? E lo è sempre nello stesso modo? E dovrà inevitabilmente continuare ad esserlo anche in futuro?
Il rischio è anche quello di intrappolare oggi una persona in una definizione che per noi la connoterà a vita.
E spesso la stessa gabbia la riserviamo anche a noi stessi: vederci inesorabilmente come “incapaci” in qualcosa, o come “perfezionisti” ecc, ci impedisce di lasciare aperta la possibilità di costruirci in modi anche diversi e di poter fare esperienze differenti.
E soprattutto, cosa ci dice quella data caratteristica del modo in cui la persona vede il suo mondo?
Supponiamo di aver visto che Lucia non ha versato una lacrima al funerale della madre, ha affrontato l’intera situazione in modo lucido facendo tutto quello che occorreva fare, ha continuato la vita di sempre mostrando spesso il sorriso e impegnandosi nei suoi progetti.
Forse potremmo definirla una persona forte.
Eppure cosa sappiamo del significato che per lei ha avuto la perdita della madre? Come si vedeva Lucia prima e come si vede ora? Come ha ricostruito quello che è successo? Cosa ha provato e cosa prova? Cosa le ha permesso di andare avanti nonostante tutto? …
Il punto non è che utilizzare etichette sia sbagliato, in qualche misura lo facciamo tutti, ma è importante tenere presente che esse indicano la lente con cui noi guardiamo, e non definiscono inesorabilmente chi siamo noi e chi sono gli altri.
E’ dunque importante essere consapevoli dei significati che noi attribuiamo alle etichette che usiamo, e non assumerle come dati di fatto.
Per non intrappolare e appiattire gli altri entro queste categorie, potremmo lasciare uno spazio sempre maggiore alle domande che possiamo farci su come l’altro dà significato alle cose, invece che affrettarci alla ricerca di risposte chiuse, seppur rassicuranti.
Le domande aperte possono essere la migliore risposta al desiderio autentico di conoscere e comprendere qualcuno.
Stereotipi… non solo gabbie ma autoinganni
Anche gli stereotipi possono essere considerati come esito del processo di categorizzazione: riconosciamo in una persona un requisito che ci porta a includerla in una determinata categoria e le attribuiamo tutte le caratteristiche dell’intera categoria, ignorando invece quelle caratteristiche che non sono incluse nella definizione della categoria.
Ad esempio, se alla categoria delle persone ricche attribuiamo caratteristiche come avidità, ambizione, arroganza, ed egoismo, qualsiasi persona che riconosciamo come ricca sarà per noi automaticamente anche avida, ambiziosa, arrogante ed egoista, mentre ignoreremo altre possibili caratteristiche che si discostano dall’immagine preconfezionata che abbiamo delle persone ricche.
Gli stereotipi, come ricorda l’etimologia della parola (dal greco “stereos”- duro- e “typos”-immagine), sono immagini rigide di categorie di persone.
In particolare, da un punto di vista formale, potremmo individuare due tipi di stereotipi:
1. Lo stereotipo del “nient’altro che”: definisce che chi rientra in una determinata categoria, può essere solo e soltanto appartenente a questa categoria e a nessun’altra.
Ad esempio, “Tommaso non è nient’altro che un tossicodipendente”: lo stereotipo del tossicodipendente impedisce di vedere qualunque altra caratteristica.
La nostra visione di Tommaso in questo caso sarà interamente canalizzata dal nostro riconoscerlo come tossicodipendente, e nient’altro. Non c’è spazio per conoscere Tommaso al di là della sua tossicodipendenza.
2. Lo stereotipo del “se- allora”: definisce che chi rientra in una categoria deve avere anche tutti gli altri requisiti che connotano quella categoria.
Ad esempio, “Se Tommaso è un tossicodipendente allora deve essere anche un debole, malato, falso, ladro”.
Attribuiamo a Tommaso tutte le caratteristiche che secondo noi dovrebbe avere chi è tossicodipendente, e gliele appicchiamo per partito preso, senza aver ancora dedicato del tempo a scoprire chi è Tommaso.
Gli stereotipi non sono necessariamente immagini “negative”, ma possono rappresentare anche categorie con caratteristiche per noi apprezzabili: ad esempio, lo stereotipo del principe azzurro, come uomo bello, romantico, affidabile, dolce e così via.
Come per le etichette, anche gli stereotipi sono come scorciatoie mentali che usiamo per inferire alcune caratteristiche e prevedere i possibili comportamenti degli altri, dandoci una sensazione apparente di sicurezza e controllo nelle relazioni sociali: se attraverso gli stereotipi possiamo in breve tempo fare inferenze su qualcuno, allora sappiamo anche come comportarci, e questo può essere rassicurante.
Tuttavia, affidarci a degli stereotipi per conoscere gli altri potrebbe essere una vera e propria trappola nella quale non solo rinchiudiamo gli altri, ma anche noi stessi, autoingannandoci con i nostri stessi schemi mentali.
Un po’ come chi, per arginare la paura di perdersi nell’esplorazione di una terra sconosciuta, si affidasse a una mappa disegnata da lui stesso prima di mettersi in viaggio, sulla base di punti di riferimento individuati durante precedenti viaggi in altre terre.
Disporrà pure di una mappa, ma per quanto possa ostinarsi ad adattare il nuovo territorio alla sua mappa, probabilmente finirà col perdersi, senza mai aver conosciuto la nuova terra, e senza aver goduto del piacere del nuovo cammino.
In che modo gli stereotipi si rivelano autoinganni fallaci?
Innanzitutto essi impediscono e bloccano la conoscenza degli altri, perché li ingabbiano in schemi che precedono la loro effettiva conoscenza; sono modelli mentali predefiniti che pre-esistono all’incontro stesso, e che il più delle volte poco hanno a che vedere con la persona che abbiamo davanti.
La inglobiamo nello stereotipo, le attribuiamo caratteristiche prima ancora di esserci dedicati all’esplorazione dell’altro… e a quel punto l’esplorazione si chiude.
Lo stereotipo viene prima della persona, e viene sovrapposto ad essa, impedendoci di “vederla”.
Gli stereotipi inoltre tendono a essere mantenuti fissi e inalterati nel tempo e spesso diventano profezie che si auto-avverano.
Se parto dal presupposto che il mio stereotipo sia un dato di realtà, anche il mio comportamento verso chi faccio rientrare nello stereotipo sarà coerente all’immagine che ho, ed è piuttosto probabile che la persona in questione finisca col comportarsi a sua volta nel modo in cui mi aspetto, come reazione al modo in cui interagisco con lei.
Inoltre, se lo stereotipo è trattato come un dato di fatto anziché come un’eventuale ipotesi, sarò poco interessato a cercare gli elementi che contrastino con il mio schema, mentre continuerò a vedere solo ciò che conferma le mie credenze.
Altrettanto, sarò probabilmente poco propenso anche a esplorare quello che la persona esprime al di fuori dello stereotipo: ci limitiamo a vedere solo e soltanto quello che lo stereotipo ci consente di vedere… tutto il resto lo ignoriamo.
E così continuerò ad autoalimentare i miei stereotipi, senza mai concedermi la possibilità di revisionarli.
Tutti possiamo essere vittime di questo autoinganno prodotto dai nostri stereotipi, e molti di essi possono essere radicati nella cultura di appartenenza: pensiamo agli stereotipi di genere, di etnia, di provenienza geografica, dello status sociale, dei credo religiosi, agli stereotipi dei segni zodiacali, ecc.
Anche in questo caso, la cosa importante è essere consapevoli dei propri stereotipi, e rimanere disposti a metterli in dubbio, ad andare alla loro verifica cercando anche ciò che contrasta con lo stereotipo, piuttosto che ciò che lo conferma.
L’alternativa all’uso inconsapevole e rassicurante degli stereotipi non è necessariamente il caos dell’ignoto, ma è l’esplicitazione dei propri stereotipi e la verifica empirica, esperienziale, di ciò che lo stereotipo dà per scontato, mantenendo l’apertura alla possibilità di vedere gli altri da angolature diverse.
E ancora una volta, interessarsi al modo unico in cui ciascuno vede il mondo.
Esercitarsi a scardinare gli stereotipi
Qualche esercizio…
1. Riesci a individuare alcuni tuoi stereotipi?
Ad esempio, quali caratteristiche attribuiresti istintivamente a queste categorie di persone:
l’ extracomunitario;
l’ingegnere;
l’artista;
il politico;
la modella;
il musulmano;
persona del segno zodiacale ariete;
2. Pensa a un tuo stereotipo. Prova a pensare a una persona che conosci che pur avendo un requisito per rientrare nello stereotipo, si differenzia dall’immagine prototipica.
Allo stesso modo, ogni volta che incontri qualcuno che richiama un tuo stereotipo, vai alla ricerca di ciò che lo discosta da quell’immagine.
Riprendendo lo stereotipo di Tommaso tossicodipendente, potremmo chiederci che cosa eventualmente lo differenzia dall’immagine della persona falsa, ad esempio.
3. Quando incontri qualcuno che rientra in un tuo stereotipo, chiediti che cosa ancora non hai visto e non sai di lui/lei, quali aspetti stai ignorando e quali stai dando per scontati, che cos’altro può essere questa persona oltre alle caratteristiche stereotipiche che vedi.
Nell’esempio di Tommaso tossicodipendente, potremmo ad esempio non aver ancora considerato che Tommaso, oltre a essere tossicodipendente, è anche uno studente di medicina, una persona che dà molta importanza alle amicizie, e ama gli animali.
Nashira Laura Andreon
Psicologa Psicoterapeuta
Si, solitamente ragioniamo per preconcetti e stereotipi. Non lo fanno solo le persone rozze ed ignoranti, lo facciamo tutti. Il motivo è già esposto nell’articolo i preconcetti consentono di “economizzare le nostre risorse” e le nostre risorse sono limitate. Siamo tutti idioti sapienti.
E alllora non basta imparare che lavoriamo per stereotipi: bisogna anche fare un uso più oculato delle risorse che abbiamo, le quali sono sempre scarse. Ma questo costa fatica, forse dovremmo riabituarci all’idea che la vita è faticosa e la fatica non è eliminabile. Non è facile.
Comunque qualche lenitivo alla carenza di risorse chi vuole lo trova:
– ritrovare fondamenti e abbandonare la conoscenza dettagliata di tecniche sempre più inutili, perchè diventano obsolete prima di essere padroneggiate. Qui la cultura classica aiuta.
– Imparare semplici tecniche per spostare fuori dalla mente ciò che può essere messo temporaneamente da parte. Cica 5000 anni fa ci fu un’invenzione strepitosa, la scrittura. Da quel tempo la memoria può anche stare esterna all’organismo.
E comunque anche risparmiare risorse a volte fa perdere l’abitudine all’individuo a misurarsi con la complessità. Bisogna imparare a volte a fare a meno di sostegni esterni. Un primo esercizio oggi potrebbe essere imparare a memoria tutte le strade della propria città e imparare a muoversi senza il sostegno di un navigatore satellitare, almeno nella propria città.
Grazie per il contributo 🙂