Nell’articolo precedente abbiamo visto come le interazioni potrebbero essere considerate esperienze di interfaccia tra diverse cornici: ogni interlocutore è portatore di una propria cornice, un modo soggettivo di vedere le cose.
La comprensione reciproca emerge dalla disponibilità degli interlocutori a esplorare tutte le cornici in campo.
Ma cosa succede quando le cornici si scontrano? Come possiamo essere pensatori creativi, osservatori della complessità, ascoltatori e comunicatori attenti e aperti, quando ci troviamo coinvolti in un conflitto?
Il conflitto come cornice
Immaginiamo che una persona ci rivolga un’accusa, più o meno diretta, o un insulto, o assuma un atteggiamento di tipo aggressivo nei nostri confronti.
Potrebbe essere un amico arrabbiato con noi, un partner, un parente, un collega, uno sconosciuto o chiunque altro.
In quel momento il nostro interlocutore sta evocando uno scenario che entrambi possiamo istintivamente riconoscere all’interno di premesse implicite condivise: lo scenario dello scontro e del conflitto.
Entro questo scenario, o cornice, che entrambi diamo per scontato, ammettiamo solitamente alcuni comportamenti che nella nostra cultura sono considerati naturali come risposta ad un atteggiamento di scontro: o si reagisce in modo simmetrico difendendosi e aggredendo a propria volta, o si reagisce in modo complementare subendo.
Nel primo caso, se ci sentiamo accusati o aggrediti potremmo istintivamente cercare di difenderci dall’attacco e iniziare a nostra volta ad accusare l’altro: in questo modo diamo inizio, spesso in modo automatico, a una lunga serie di botta e risposta del tipo “e tu allora…/ ma io non…”, in un’escalation senza fine, in cui si assume che chi “urla di più” avrà la meglio.
Entrambi stiamo leggendo la situazione nei termini di una lotta con vincenti e perdenti, e entrambi vogliamo vincere lo scontro, avere ragione, interpretando così lo stesso ruolo simmetrico di aggressore/difensore.
Un copione estenuante, che prima o poi esaurisce entrambi.
Nel secondo caso, a fronte dello stesso atteggiamento accusatorio che ci viene rivolto, potremmo scegliere- più o meno istintivamente e per svariati motivi- di comportarci in modo complementare, con un atteggiamento di tipo sottomesso, arrendendoci passivamente a qualunque accusa l’altro ci porga, seppur la riteniamo infondata: “hai ragione, sono proprio un buono a nulla…”.
Ma quello che potrebbe sfuggirci è che in entrambi i casi siamo sempre all’interno di una stessa cornice condivisa, che uno dei due propone e che l’altro accoglie: sia la reazione simmetrica sia quella complementare sono entrambe inscritte nella stessa cornice che entrambi gli interlocutori danno per scontata.
Una sorta di danza che l’accusatore propone implicitamente al suo interlocutore, e i cui passi, sia simmetrici che complementari, sono già decodificati e previsti nel repertorio di quella danza.
Entrambe le reazioni sono modi in cui si collabora a quella danza e la si mantiene in vita.
Naturalmente, lo stesso potrebbe essere detto quando i ruoli sono invertiti e siamo noi stessi a proporci nel ruolo dell’accusatore. Si tratta sempre della medesima cornice.
Una scelta consapevole
In alcuni casi, la scelta di restare dentro alla cornice e collaborare in modo simmetrico o complementare, potrebbe essere una scelta utile.
Potrebbe essere il caso di una sfida, ad esempio sportiva, in cui l’atteggiamento simmetrico proteso alla vittoria o alla “sana competizione” è funzionale a mantenere la cornice del gioco sportivo, a patto che vi sia un atteggiamento di reciproco rispetto.
O potrebbe essere il caso in cui scegliamo consapevolmente di scusarci con l’altro perché abbiamo realizzato che un nostro gesto lo ha ferito o è stato inopportuno; in questo caso, assumere un atteggiamento complementare, porgendo le nostre sentite scuse, è un atto di assunzione di responsabilità e di riconoscimento dei sentimenti dell’altra persona.
In altri casi invece alimentare la danza dell’accusatore potrebbe rivelarsi dannoso oltre che inutile, sia nel caso in cui l’accusatore siamo noi sia nel caso sia il nostro interlocutore.
Ad esempio quando essa si configura come uno scontro dai toni incalzanti in cui ci si irrigidisce reciprocamente in ruoli ripetitivi che perpetuano una dinamica relazionale caratterizzata dal blocco e dalla staticità.
In questo tipo di interazione conflittuale, sembra non esserci più spazio per un riconoscimento reciproco, per la considerazione delle emozioni di entrambi, per il desiderio di trovare nuove prospettive che tengano conto del benessere di tutti.
Piuttosto, sembra cristallizzarsi il desiderio di preservare la propria posizione che si è ormai consolidata in quella specifica relazione: il desiderio di conservare il proprio ruolo è diventato più importante della soluzione del problema o della relazione stessa.
Questo vale tanto per le nostre relazioni quotidiane, quanto per i conflitti di più vasta portata: pensiamo anche alle tante guerre in cui spesso la contesa delle parti non si gioca tanto intorno al problema che di per sé l’ha scatenata, ma sul mantenimento delle reciproche posizioni.
Ciò che può fare la differenza è una scelta di tipo consapevole che è resa possibile solo quando si amplia lo sguardo fino a vedere sia la dinamica in gioco sia altri scenari possibili.
Quando slittiamo dal nostro sguardo interno al conflitto (“ho ragione io perché tu…”) ad una prospettiva più ampia che osserva l’intera dinamica in atto, passando così dai contenuti della contesa ai processi relazionali, il nostro punto di vista può cambiare radicalmente ed essere in grado di fare scelte più consapevoli.
Spesso infatti restiamo prigionieri di ruoli che noi stessi ci siamo assegnati, a volte perché quella cornice è talmente consolidata che diventa automatica e inconsapevole, o magari perché è l’unica che si conosce; talvolta agiamo in un certo modo perché magari non sappiamo che altro fare.
E’ più facile aderire a uno scenario già proposto piuttosto che cambiarlo.
L’esperienza dello spiazzamento
La strategia è la via del paradosso.
Sun Tzu
Come possiamo allora gestire in modo creativo i conflitti, senza renderci prigionieri di ruoli e schemi che già si sono rivelati inefficaci e improduttivi?
Si tratta di immaginari altri scenari possibili, nuove cornici che non corrispondono semplicemente a un cambiamento dei comportamenti, ma ad un totale cambio di prospettiva: occorre cambiare la cornice con cui vediamo noi stessi, l’altro e l’interazione in atto, e proporre una nuova danza a noi stessi e al nostro interlocutore.
Come nel judo, si tratta di non offrire resistenza e non offrire punti appoggio su cui far leva per continuare quella danza. Non si tratta di passare da un comportamento di opposizione a uno di sottomissione, o viceversa, perché entrambi questi comportamenti, come abbiamo visto, sono punti di appoggio che mantengono la cornice proposta.
Si tratta piuttosto di entrare in uno scenario completamente diverso, proponendo sia a noi stessi che all’altro un’esperienza di spiazzamento e di sorpresa.
Quando siamo di fronte a un fiume in piena, opporre resistenza serve a ben poco, così come abbandonarsi alla corrente può essere altrettanto deleterio.
Così, di fronte alla furia del “nemico”, a poco serve sia combatterlo apertamente che arrendersi: soprenderlo, cambiare prospettiva, e immergersi in una danza diversa e collaborativa può rivelarsi un’esperienza molto più costruttiva per entrambi.
Come afferma Sun Tzu- generale e filosofo cinese, autore di L’arte della guerra- “In linea di massima, a proposito della battaglia, l’attacco diretto mira al coinvolgimento; quello di sorpresa, alla vittoria.”
Ma nell’immagine proposta da Sun Tzu siamo chiaramente ancora sul palco della guerra, dove ciò che conta è “vincere” l’avversario.
Proviamo a scendere da quel palco e a immaginare molte altre sceneggiature possibili.
Per fare questo, è necessario passare a quel pensiero complesso di cui si parlava nel precedente articolo, un pensiero che lasci spazio alla creatività, al paradosso, alla flessibilità, alla pluralità e alla possibile coesistenza di molteplici alternative.
L’invito è quello di moltiplicare le cornici, e pensare a diverse alternative possibili.
Cambiare cornice non significa evitare il conflitto
Si potrebbe essere indotti a pensare che cambiare cornice al conflitto significhi, tout court, evitarlo totalmente o sedarlo.
Di fatto, anche l’evitamento del conflitto o l’apparente acquiescenza potrebbero essere inscritti all’interno della solita vecchia cornice.
Quando è presente un dissenso, si potrebbe essere tentati di tacere per evitare il conflitto aperto, magari perché si ritiene che il mantenimento della relazione sia più importante del singolo problema.
Ma fingere che tutto vada bene, e trincerarsi dietro a un silenzio di finto compromesso, potrebbe non essere la soluzione più efficace per mantenere una buona relazione.
Se non ci si ferma a guardare insieme il dissenso, esplorandolo con un atteggiamento aperto, si rischia che esso cresca silenziosamente nel tempo.
Allo stesso modo, affrettarsi verso una pace apparente senza prima avere dedicato del tempo a comprendere meglio la complessità della situazione, potrebbe far riemergere lo stesso problema in futuro.
Anche questi comportamenti rischiano di diventare copioni cristallizzati con cui far fronte al conflitto quando non disponiamo di altre alternative.
Sia l’atteggiamento di chi vuole vincere lo scontro a ogni costo, sia di chi accetta passivamente di subirlo, sia di chi lo evita a priori, sia di chi cerca di nasconderlo velocemente sotto la sabbia, possono essere tutti comportamenti che tendono ad autoalimentarsi e a mantenere immutata sia la relazione che il problema.
E ciascuno di questi comportamenti lascia poco spazio all’esplorazione dei rispettivi punti di vista, alla costruzione di una relazione basata sulla comprensione e il rispetto reciproci, alla costruzione di alternative relazionali.
Una terza posizione
Si tratta dunque di trovare una terza posizione, ortogonale: né evitare il conflitto né perpetuarlo, né accettare la violenza né alimentarla, e come disse Nelson Mandela “né dimenticare né punire”.
Questo è il modo di pensare al conflitto nei termini del metodo della non-violenza: non si tratta di accettarla, né di subirla, ma anzi di lottare attivamente per combatterla.
Ma per combattere realmente la violenza, non si può usare la violenza stessa.
Occorre un metodo diverso che si opponga alla violenza con mezzi nuovi, che spiazzino i combattenti e aprano strade non ancora battute, che mirino realmente alla costruzione di relazioni basate sulla reciproca comprensione.
Questo vale naturalmente sia per conflitti di ampia portata, sia per i più piccoli conflitti quotidiani a cui tutti nelle nostre vite prendiamo parte.
Per immaginare nuovi modi creativi di gestire efficacemente il conflitto occorre allenarsi a una consapevolezza più ampia di sé, degli altri e dei contesti di cui siamo parte, allenarsi al pensiero complesso, e aprire la strada a nuovi modi di porsi di fronte ai conflitti.
Quale potrebbe essere una “terza posizione” possibile?
Lo vedremo nel prossimo articolo dedicato a questa serie.
Nashira Laura Andreon
Psicologa Psicoterapeuta