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Facebook e Social Network: connessi o disconnessi?

Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un radicale cambiamento delle modalità di comunicazione, con l’avvento della comunicazione online e dei social network, che hanno assunto un ruolo preponderante nelle interazioni umane di questa era digitale.

Come stiamo disegnando attualmente le nostre possibilità relazionali, la connessione reciproca?
Qual è il rapporto con noi stessi e con l’altro, nella società digitale?
Come si può descrivere, da un punto di vista psicologico e sociale, il fenomeno della presenza massiccia, nelle nostre vite, della comunicazione online e delle modalità con cui essa avviene?

Schermi che schermano e sguardi che non si incontrano

Osservo sempre più frequentemente il verificarsi di una situazione che, a mio parere, ha qualcosa di paradossale, a tratti buffo, e desolante allo stesso tempo, e che riflette la tendenza attuale del modo in cui ci relazioniamo gli uni agli altri.
La scena è più o meno questa: ci si trova in una situazione sociale, magari una cena fra amici, e ad un certo punto, al primo calare di un attimo di silenzio o alla prima pausa comunicativa, tutti i commensali si trovano con lo sguardo assorbito dal proprio smartphone.
E chi ancora non ha ceduto all’impulso di controllare le notifiche, non potendo più incrociare alcuno sguardo umano e sentendosi spaesato e isolato da questo improvviso vuoto relazionale, corre ai ripari cercando disperatamente nelle tasche il proprio dispositivo elettronico che lo faccia sentire un po’ meno solo.
Il paradosso più sorprendente è il fatto che spesso gli stessi commensali sono proprio quelli che magari condividono insieme una buona fetta di tempo online sui social network o nella messaggistica istantanea… ma quando si trovano “insieme” non sanno più stare davvero “insieme”.
Si è insieme e si è contemporaneamente altrove, presenti ma assenti.
Come si può spiegare questo paradosso comunicativo?

Secondo le statistiche, gli italiani trascorrono in media 2,5 ore al giorno sui social media; presumibilmente un tempo decisamente maggiore a quello dedicato alla classica conversazione vìs à vìs.

Quando condividere vale più di vivere

Da anni ormai, sui social network dilaga la dinamica del condividere tutto a tutti i costi: pezzi di sé, frammenti di identità, momenti di quotidianità, sfumature di intimità.
La vita quotidiana di milioni di persone sembra punteggiata dalle sequenze di vita online: i numerosi post e aggiornamenti di stato quotidiani scandiscono il tempo delle nostre vite, sancendo una temporalità virtuale più significativa di quella reale, e ci segnalano la nostra reciproca esistenza. Se ti vedo su facebook, so che esisti ancora.
Ogni attimo, anche il più banale e ordinario della propria quotidianità, deve essere registrato, riportato, fotografato, condiviso. Prima condiviso, e poi, casomai, vissuto.
Sui social network, la riflessione privata, il tempo di elaborazione intima dei propri moti interiori, sono esclusi e sostituiti dalla dimensione istantanea della condivisione e co-partecipazione di un’interiorità che deve essere sviscerata insieme ad altri, rigorosamente su una piattaforma social.

Pensieri, emozioni, stati d’animo, sembrano prendere forma direttamente in rete, nel momento stesso in cui vengono postati.

In che modo questi aspetti che caratterizzano la nostra socialità online assumono una valenza preferibile, per noi esseri umani digitali del ventunesimo secolo, rispetto a modalità “classiche” dello stare in relazione vìs à vìs?

La teoria di Sherry Turkle

A tali quesiti, offre un’ipotesi interessante la psicologa Sherry Turkle, che da anni si occupa di studiare la psicologia della comunicazione online.
Ecco la sua teoria, ben esposta in questo discorso su TED, che trovate nel video qui di seguito.

Ne riporto un breve estratto:

“Di questi tempi, quei telefoni nelle nostre tasche stanno cambiando le nostre menti e i nostri cuori perché ci offrono queste fantasie gratificanti.
Uno, che possiamo rivolgere l’attenzione dovunque vogliamo.
Due, che saremo sempre ascoltati.
E tre, che non dovremo più essere soli.
E questa terza idea che non dovremo mai essere soli, è cruciale nel cambiamento della nostra mentalità . Perché nel momento in cui le persone sono sole, anche solo per qualche secondo, diventano ansiose, irrequiete, si fanno prendere dal panico, vanno in cerca di un dispositivo.
Pensate alle persone in fila alla cassa o a un semaforo rosso. Essere soli è percepito come un problema che va risolto. E così si cerca di risolverlo con la connessione.
Ma qui, la connessione è più un sintomo che una cura.
Esprime, ma non risolve, un problema di fondo. E ancora più che un sintomo, la connessione costante sta cambiando il modo in cui la gente pensa a se stessa.
Sta dando forma a un nuovo modo di essere.
Il miglior modo di descriverlo è: condivido quindi sono.
Usiamo la tecnologia per definire noi stessi condividendo i nostri pensieri e le nostre sensazioni persino quando le stiamo provando. ”

Connessione o disconnessione?

L’ipotesi di Sherry Turkle, che mi sento di condividere, è che vi sia una difficoltà sempre più diffusa a stare da soli, o meglio in compagnia di se stessi, e che tale incapacità si rifletta nel bisogno costante di una sempre maggiore condivisione, a patto che sia “controllata”.

“Siamo soli, ma abbiamo paura dell’intimità. E quindi dai social network ai robot socievoli, progettiamo tecnologie che ci daranno l’illusione di una compagnia senza bisogno di amicizia. Ci rivolgiamo alla tecnologia perché ci aiuti a sentirci connessi in modi che possiamo agevolmente controllare. Ma non ci sentiamo a nostro agio. Non abbiamo il controllo assoluto.”

Non soltanto la dimensione della solitudine, nella società attuale, trova sempre meno spazio e dignità, relegata ai margini del significato di isolamento,e privata di qualsiasi valore positivo.
Ma anche, aggiungerei, stiamo assistendo ad una difficoltà sempre maggiore a entrare in un contatto intimo e profondo con noi stessi, con le parti di noi più ombreggiate e fragili, con la nostra vulnerabilità umana.

Sembra che, in quest’era super-informatizzata, disponiamo di un grandissimo numero di informazioni e dispositivi, ma sappiamo sempre meno prenderci cura di noi stessi, delle nostre emozioni e stati d’animo difficili.
Non sappiamo più come maneggiarle.

E non ci concediamo nemmeno il tempo per ascoltarle, perché la percezione stessa della dimensione del tempo sta cambiando radicalmente in questa società dove tutto è in real-time.

Non sappiamo più stare con la nostra vulnerabilità e con quella degli altri.
Così, quell’intimità che nasce da uno spazio di autenticità, fatica a essere costruita.

Ed è proprio da questa dis-connessione da noi stessi che nasce il bisogno di una connessione facile, gestibile, controllabile.
Facebook e i vari social network offrono la facile illusione, come dice Sherry Turkle, di poter essere sempre e comunque ascoltati, considerati, compresi, rassicurati, apprezzati.

Se vivo un’emozione difficile, se mi sento arrabbiato, triste, ansioso, posso postare su facebook, e so che qualcuno, volente o nolente, mi leggerà, e forse commenterà o metterà il suo like;
quella sensazione di conforto rispetto all’emozione difficile, che fatico a generare da uno spazio consapevole interiore, viene sostituita dalla gratificazione immediata data dai social: posso trovare rassicurazione, rinforzo e sostegno alle mie idee o al modo in cui mi sento.
In modo analogo, anche la condivisione delle emozioni piacevoli sembra rispondere al bisogno di amplificare la sensazione di gratificazione attraverso l’approvazione reciproca.

Il sistema dei social network, basato su meccanismi di considerazione e apprezzamento reciproco (dato dai like, commenti, tag ecc), rispondono al bisogno umano di sentirci visti, considerati, accolti.

Identità ideali e vulnerabilità negate

I social network offrono agli utenti anche la possibilità di controllare l’immagine con cui presentarsi sulla piattaforma virtuale, permettendo di scegliere le foto da pubblicare, i post, i tag, il controllo del diario.
Sui social media è possibile mostrarsi come si vuole che gli altri ci vedano, omettendo le parti di sé con cui non ci si sente a proprio agio, e mostrando gli aspetti di sé o della propria vita con cui vorremmo identificarci.
Tutto questo offre la rassicurante sensazione di poter meglio gestire il rapporto con gli altri, e di poter dirigere l’apprezzamento sociale di cui oggi abbiamo tanto bisogno.
I social rischiano così di alimentare una tendenza ad aggrapparsi alla propria identità ideale, e di aver sempre meno confidenza, familiarità, accoglienza con le parti più vulnerabili di noi stessi, e di conseguenza anche degli altri.

Così, ritengo diventi un sistema che si autoalimenta: il meccanismo di apprezzamento e considerazione reciproca è come se validasse continuamente la sensazione di poter trovare conforto e approvazione attraverso un’identità virtuale e una comunicazione online, ed è come se rinforzasse una sensazione diffusa che per poter stare bene, oggi, sia necessario sentirci continuamente apprezzati gli uni dagli altri.

Rischiamo di dimenticarci, così, che ciò di cui abbiamo realmente bisogno, oggi più che mai forse, non è l’apprezzamento degli altri- dato, peraltro, da una comunicazione parziale- ma una profonda e radicata accoglienza di noi stessi.
E’ da questa accoglienza che si generano relazioni empatiche profonde.

Abbiamo bisogno di abbracciare intimamente la nostra stessa sofferenza, invece che postarla in facebook.
Abbiamo bisogno di tornare a godere dei momenti più ordinari della vita, invece che affrettarci a condividerle con conoscenti.
Abbiamo bisogno di stabilirci in una presenza mentale che ci permetta di vivere con pienezza le nostre vite.

Disegnare vie di cambiamento sui social

Concluderei con lo stesso invito che propone Sherry Turkle: il suggerimento non è quello di abbandonare i dispositivi elettronici o i social network, ma “di sviluppare una relazione più consapevole con loro, con gli altri e con noi stessi”.
L’invito è quello di riappropriarsi della dimensione del tempo, dello spazio interiore, della possibilità di tornare a casa in se stessi prima di rendersi “condivisi”.
Significa imparare a fermarsi, a dedicare tempo ad ascoltarsi più in profondità, a lasciare un margine di un intervallo consapevole tra i propri pensieri e stati d’animo estemporanei e la loro pubblicazione online.
Questo tempo è fondamentale e prezioso.
Per prenderci cura di noi stessi, per poter gestire la propria presenza nello spazio social in modi consapevoli che possano davvero essere “social”.

Torneremo a scrivere ancora sul tema dei social network.

Nashira Laura Andreon

Psicologa e Psicoterapeuta

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